VIII

Dagli «Innamorati» a «Una delle ultime sere di carnovale»

Nel 1759, mentre il Goldoni tornava da un periodo non molto fortunato di attività teatrale in Roma (e i viaggi furono spesso per Goldoni una interruzione salutare di una fase stanca nella sua arte), in una sosta a Bologna, furono composti Gli innamorati.

Con questa commedia si apre un nuovo e piú grande periodo creativo, in cui il Goldoni appare aver superato la fase della maggiore tensione al personaggio ed alla situazione fortemente caratterizzata e quella delle esperienze letterarie in versi[1], anche se di queste precedenti fasi egli naturalmente utilizza le lezioni essenziali e se in questo nuovo periodo non mancheranno accanto ai capolavori commedie piú deboli, specie all’inizio. Padrone consumatissimo dei suoi mezzi espressivi, dal linguaggio alla tecnica scenica, il Goldoni è anche piú libero da quella attenzione all’interprete del suo personaggio che era stato stimolo, ma poteva diventare limite in un approfondimento piú intimo della sua poesia. E mentre egli sembra guardare nel proprio passato e nella propria passata esperienza (le stesse inquietudini degli innamorati sono esplicitamente legate alle proprie di altri tempi), trasforma, secondo la sua natura, quella che in altri sarebbe stata nostalgia e malinconia, in un maggior calore di simpatia e di maggiore limpidezza di rappresentazione.

E certo, senza voler (come diremo per le commedie veneziane) forzare l’animo goldoniano ad atteggiamenti non suoi, già qui il Goldoni appare piú impegnato in una complessa analisi sentimentale che è tanto piú poetica quanto piú i personaggi si sentono scaturire da una elaborazione fantastica piú profonda e intimamente preparata.

Cosí negli Innamorati la commedia dell’amore viene approfondita e sviluppata in maniera nuova[2] e con una ricchezza e finezza di sfumature intorno alla linea salda e sinuosa dell’azione che si identifica con lo stesso motivo poetico della «inquietudine» che turba l’idillio fra galanteria e profondo affetto dei due giovani protagonisti.

E come il tema dell’amore è qui tanto piú vibrante di poesia, scavato e rilevato con un’arte sottile e ispirata, caldo di un entusiasmo puro e di un sorriso di esperienza senza pedanteria, cosí in questa commedia il personaggio femminile centrale (ma cosí bene intonato al personaggio maschile, pieno anch’esso di delicatezza e di nervosa sensibilità), l’indimenticabile Eugenia, ha una vita intima tanto piú complessa – pur nella sua umanità non eccezionale di ragazza inquieta fra la gelosia e il turbamento stesso della sua condizione di fidanzata – di quella della stessa Mirandolina, in cui lo scatto, la volontà, l’impegno di malizia eran tanto piú lucidi e sostenevano tanto piú energicamente le variazioni sottili delle sue arti femminili, del suo fascino cosí ben dominato.

E tale natura piú complessa e piú poetica di Eugenia (con l’alternarsi di dispetto e capriccio, di abbandoni e moti profondi d’affetto) si chiarisce a mano a mano che la commedia procede e il motivo centrale dell’inquietudine[3] dell’amore in attesa della pace coniugale va prendendo un po’ tutti al di là della coppia di Eugenia e Fulgenzio, con il suo tormento sottile e smorzando a poco a poco la maggiore autonomia della linea secondaria piú apertamente comica (Fabrizio e Succianespole[4]), mentre la splendida sapienza scenica di questo Goldoni, cosí maturo e padrone dei suoi mezzi di espressione teatrale, si rivela, ad esempio, fra l’altro, nell’apertura del III Atto; in cui la scena del pranzo burrascoso è seguita attraverso le parole di Tognino e Lisetta, servitori, che guardano dal buco della serratura ed espongono, attraverso il dialogo, la situazione resa piú fantastica in questa dimensione di avvicinamento e allontanamento del particolare osservatorio.

E se le grandi scene 11 del i Atto e 13 del iii Atto sono complessivamente veri capolavori di finezza e di vibrazione poetica in quell’ondeggiare della linea patetica e ironica in cui si accordano per poi nuovamente separarsi ed urtarsi le voci di Eugenia e Fulgenzio (soggetti ad una singolare sfasatura che fa per lo piú incontrare il rasserenamento dell’una con il turbamento dell’altro e viceversa), quale sapienza e quale necessità poetica si possono notare in un passaggio come quello che alla fine della scena 13 fa seguire all’estasi dei due innamorati, finalmente concordi e muti nella reciproca affettuosa contemplazione – «Fulgenzio: Anima mia dolcissima, cuor mio caro, vi domando perdono, compatitemi per carità. (Si inginocchia a’ piedi di Eugenia e restano tutti e due senza parlare)» –, l’ingresso improvviso di Fabrizio e Clorinda e l’imbarazzo umoristico dei due che poi si svolge con diversa giustificazione psicologica.

Il poeta degli innamorati tenterà poi un ampliamento del tema dell’amore, dell’inquietudine e della gelosia nella trilogia della villeggiatura e nel Curioso accidente; ma mentre in quest’ultima commedia, sempre di alta misura teatrale ma di scarsa intimità poetica, predomina la vivacità dell’intreccio, rivelato dominante anche nella lucida e briosa soluzione con cui Marianna espone a madamigella Costanza l’esito del «curioso accidente», nella trilogia della villeggiatura ben diversamente impegnativa per la vastità dell’impianto e dell’azione, che richiese appunto lo svolgimento in tre commedie (Le smanie per la villeggiatura, Le avventure della villeggiatura, Il ritorno dalla villeggiatura), e per la complessità di temi, caratteri, sentimenti che lo scrittore ci volle raccogliere ed ordinare, si fa luce una spinta piú importante (l’amore come sentimento che sta per travolgere l’onore ed ogni altro valore e norma morale) che par condurre il Goldoni verso il dramma e vicino alle nuove prospettive del dramma borghese europeo.

Né sarà certo da negare interesse ed attenzione a simile prospettiva ed avvio, che si combina con la rappresentazione comica – ma non priva di accenti piú scuri – di un nucleo familiare insidiato insieme dalla forza della passione amorosa e dalla dissipazione economica dovuta al fatuo e irresistibile bisogno di «comparire», di «farsi onore», di «figurare» con il lusso ed il fasto, di stare al passo con la «moda» in una società avida di frivoli piaceri e di prestigio. A cui il Goldoni oppone i rappresentanti di una saggezza concreta, esercitata sia nella misura dei sentimenti sia nella consapevolezza dei limiti delle proprie possibilità economiche e della propria condizione sociale.

Entro questa rappresentazione complessa ed ardua, ricca di una vasta gamma di scene, di situazioni, di comportamenti e caratteri (specie le efficacissime scene settecentesche delle «smanie» e delle «avventure» della villeggiatura nei loro aspetti piú comici: le gare dei personaggi femminili per i vestiti all’ultima moda, le loro piccole invidie e le loro ipocrite mutue tenerezze, gli intrighi e i pettegolezzi degli scrocconi), il Goldoni cercò di portare avanti, fino al limite consentitogli dalla sua «prudenza» e dalla sua piú congeniale «misura», il progresso di un sentimento amoroso, che – pure screziato da sfumature di puntiglio, infatuazione e caparbietà – giunge nel personaggio centrale di Giacinta (promessa sposa di Leonardo, ma innamoratasi di Guglielmo) ad accenti e toni drammatici e passionali quando il contrasto fra l’impegno ormai preso (un fidanzamento che sembra celare un effettivo stato coniugale) e l’attrazione per il nuovo innamorato diventa insostenibile e la donna esita sull’orlo del tradimento e della scelta del «disonore».

Ma a questo punto il Goldoni si arresta e spezza la forza di questo motivo drammatico, coerentemente alla sua prospettiva morale ed estetica (il trionfo del buon senso che, attraverso l’azione del personaggio saggio e civile, impone a Leonardo la fine della sua dissipatezza finanziaria e a Giacinta la conclusione del matrimonio e l’allontanamento dall’oggetto del suo colpevole amore), ma certo anche ben mostrando la sua mancanza di vera volontà drammatica portata sino in fondo. Sicché la trilogia, cosí ricca di tipi e caratteri[5], cosí interessante per la matura acutezza psicologica dell’autore e per l’impostazione di una situazione drammatica per lui insolita, rimane poeticamente incompiuta e ben lontana dalla organica circolarità delle grandi commedie veneziane dello stesso periodo, anche se queste chiaramente si avvantaggiano dell’approfondimento psicologico ottenuto dal poeta sulla via che corre dagli Innamorati alla trilogia.

La grande misura del genio goldoniano è raggiunta, in questi anni fra il ’60 e il ’62, nelle commedie veneziane che vanno dai Rusteghi, alla Casa nova, alla Buona madre, al Sior Todero brontolon, alle Baruffe chiozzotte, a Una delle ultime sere di carnovale, e che divengono i supremi capolavori del Goldoni nella perfezione dei Rusteghi, della Casa nova, di Sior Todero, delle Baruffe.

Si tolga di mezzo quel curioso tentativo di compromesso con scene a soggetto e maschere che è Il buon compatriotto (primo preparativo per le nuove prove della parigina Comédie Italienne!), e si consideri (malgrado l’intermezzo delle commedie in lingua: Un curioso accidente, La donna di maneggio, e la trilogia della villeggiatura fra i Rusteghi, la Casa nova e la Buona madre) la continuità di questa mirabile zona sostanzialmente compatta e coerente: non si tratta piú di isolate «tabernarie», ma di tutta una zona di poesia che si esprime compiutamente in un perfetto dominio dei mezzi tecnici che hanno raggiunto la loro piú alta maturità.

Qui ritmo teatrale e ritmo vitale si fondono in profondo ritmo poetico e tutto acquista una necessità e una limpidezza che spesso, anche in commedie belle e riuscite di altre epoche, erano state limitate da concessioni alla semplice efficacia o al rilievo di motivi laterali o al puro gusto dello spettacolo o ad eccessive preoccupazioni morali.

Queste grandi commedie sono cosí l’espressione piú alta ed intera dell’animo poetico goldoniano nel momento in cui la sua esperienza artistica è giunta alla sua piena maturità e permette un singolare raggiungimento dell’ideale di «semplice e naturale» attraverso una misura, una armonia, una raffinata prosa poetica che sposta quel canone di poetica dall’efficacia energica ad una zona pur energica, ma tanto piú profonda ed intima. Tutto è concluso in queste commedie: non piú sentimentalismo e moralismo astratti, non piú semplice forza del personaggio; non piú parti serie e parti comiche, ma un’unica dimensione poetica espressa con perfetta utilizzazione di tutti i mezzi sperimentati in tanti anni di lavoro artistico.

Né d’altra parte si pensi ad un improvviso cambiamento da una disposizione e capacità letteraria-teatrale a una disposizione e capacità poetica (dalla letteratura alla poesia, come a volte si è detto) perché invece si tratta di un approfondimento e di una maturazione di motivi e qualità autenticamente poetici già da tempo attivi ed operanti nel lungo esercizio teatrale goldoniano, ed ora portati – dopo tante fasi, esperienze, risultati vari, ma non incoerenti fra loro – alla loro espressione piú armonica e fusa, alla loro misura piú concreta e profonda.

Né ancora si accetti la motivazione patetica di questa poesia, considerata come un ritorno di contemplazione nostalgica del «piccolo mondo veneziano» e del mondo della propria gioventú[6]: ché anzi la simpatia affettuosa del Goldoni per il mondo rappresentato si è fatta come piú alacre ed intima (non malinconica e nostalgica) e si avvantaggia di un piú maturo sentimento di misura e di acutezza nello scandaglio e rilievo di una situazione concreta còlta nel suo piú recente sviluppo: urto fra generazioni entro la loro connotazione sociale, bisogno di nuova libertà nella generazione dei giovani, resistenza della vecchia generazione entro le condizioni della classe borghese e popolare, urto fra i diversi personali caratteri, con i loro pregi e difetti, attrito serio-comico nella casa, nel piccolo quartiere, al cui termine il poeta non si afferma certo come nostalgico laudator temporis acti né come impaziente sostenitore delle ragioni dei giovani, ma come concreta voce poetica di un reciproco concorso, pur nella lotta e nell’urto, verso una specie di ordine piú intimo, piú concorde e affettuoso, piú indulgente e comprensivo, piú ispirato ad una moralità socievole e ragionevole di profondo «buon senso» e di misurata apertura di libertà.

Del piccolo mondo borghese il Goldoni coglie il movimento difficile di una vita di rapporti il cui contrasto tensivo si acutizza in alcune posizioni estreme e irrecuperabili (il caso di Sior Todero piú vinto che convinto) o viceversa disposta ad una conversione e ad una persuasione (il caso di Cecilia nella Casa nova e dei rusteghi che alla fine si lascian «addomesticare» pur senza totale sconfitta), e piú centralmente si risolve in una mutua rinuncia o alla ristrettezza o alla rigidezza eccessiva o ad un eccessivo bisogno di vita alla «moda» e alla larghezza e libertà senza misura. Di questa tensione rasserenata eppur fermentante il Goldoni vive poeticamente il diagramma inquieto e comico, la reale, concreta allusione alla stessa condizione vitale generale nella sua omogenea e screziata consistenza, nella sua ricerca di un’ordinata, pacifica felicità e libertà, nel suo limite scosso, turbato e ricostruito ad un livello sempre piú sicuro ed umano.

Si dovrà notare pure un movimento, entro questa grande zona, verso l’esito corale, verso il disegno piú aperto ed ampio delle Baruffe, dove, fra l’altro, come e meglio che nel Campiello, l’azione trova il suo sfondo piú propizio nelle vie e nella piazzetta fra le case, al contrario di quanto avviene nelle tre altre commedie tutte svolte nel chiuso della casa, incentivo di intimità, ma anche di attrito fra i personaggi: donde l’importanza di quegli accenni alle finestre e ai balconi a cui fanciulli e servette «si buttano» nella loro ansia di avventura e di libertà. Ma certo in queste grandi commedie «carattere» e «ambiente» si fondono e si commisurano come in una dimensione piú intera e concreta di realtà umana. I caratteri si sviluppano e si precisano, reagiscono e agiscono nella sollecitazione dei loro rapporti ambientali, l’ambiente si realizza nell’incontro e scontro dei caratteri perdendo – anche nelle Baruffe, tanto piú aperte al soffio vivo e suggestivo dell’aria, della luce, del rapporto fra mare e riva – ogni pericolo di pittoresco, di semplice sfondo ambientale e paesistico, ché anche nelle Baruffe case, piazze, oggetti, uomini sono intimamente legati e inseparabili.

La serie delle commedie veneziane si apre con quella che complessivamente si può considerare la piú equilibrata ed armonica, la piú ritmata in una simmetria non rigida, ma ben avvertibile nella linea pur cosí morbida dell’opera: I rusteghi.

Nei Rusteghi l’armonia, con cui si esprime la poetica rappresentazione del piccolo mondo borghese, è davvero perfetta in ogni particolare e mentre quel mondo è tutto vibrante di vita, di piccole gioie e di piccoli affanni, questa vibrazione è ben lungi da un semplice riflesso veristico, ha un suo tono poetico in cui paiono fuse profondamente quella attenzione e simpatia, quella poesia delle cose comuni, delle ore comuni, della vita della casa, che salgono nell’opera goldoniana, in gradi diversi e piú esterni, sin dai giovanili «intermezzi». Anche qui, come già nel Campiello, l’inizio imposta il tono poetico e le prime battute di Lucietta e della matrigna creano, con il loro puro timbro intriso di cose ed affetti comuni, il tono poetico dell’interno casalingo:

Margarita che fila, Lucietta che fa le calze, ambe a sedere.

Lucietta:

Siora madre.

Margarita:

Fia[7] mia.

Lucietta:

Deboto[8] xe fenío[9] carneval.

Margarita:

Cossa diseu, che bei spassi che avemo abuo[10]?

Lucietta:

De diana! gnanca una strazza de comedia no avemo visto.

Margarita:

Ve feu maraveggia per questo? Mi gnente affato. Xe deboto sedese mesi, che son maridada; m’alo mai menà in nissun liogo vostro sior padre?

Lucietta:

E sí, sala? no vedeva l’ora che el se tornasse a maridar. Co giera[11] sola in casa, diseva tra de mi: lo compatisso sior padre; élo no me vol menar, nol gh’ha nissun da mandarme; se el se marida, anderò co siora maregna. El s’ha tornà a maridar, ma per quel che vedo, no ghe xe gnente né per mi, né per éla.

Margarita:

El xe un orso fia mia; noi se diverte élo, e nol vol che se divertimo gnanca nu. E sí, savè? co giera da maridar, dei spassi no me ne mancava. Son stada arlevada ben. Mia mare[12] giera una donna sutila, e se qualcossa no ghe piaseva, la saveva criar e la saveva menar le man. Ma ai so tempi la ne dava i nostri divertimenti. Figurarse, l’autunno se andava do o tre volte al teatro; el carneval cinque o sie[13]. Se qualchedun ghe dava una chiave de palco, la ne menava a l’opera, se no, a la comedia, e la comprava la so bona chiave, e la spendeva i so boni bezzetti. La procurava de andar dove la saveva che se fava[14] de le comedie bone, da poderghe menar de le fie, e la vegniva con nu, e se divertivimo. Andévimo, figurarse, qualche volta a Reduto[15]; un pochetin sul Liston[16], un pochetin in Piazzeta da le stròleghe, dai buratini, e un per de volte ai casoti. Co stevimo po in casa, gh’avevimo sempre la nostra conversazion. Vegniva i parenti, vegniva i amici, anca qualche zovene; ma no ghe giera pericolo, figurarse.

Lucietta:

(Figurarse, figurarse; la l’ha dito fin adesso sie volte).

Margarita:

No digo; che no son de quele che ghe piasa tuto el zorno andar a torziando[17]. Ma, sior sí, qualche volta me piaserave anca a mi.

Lucietta:

E mi, poverazza, che no vago mai fora de la porta? E nol vol mo gnanca[18] che vaga un fià[19] al balcon? L’altro zorno me son butada cussí, un pocheto in scampar; m’ha visto quela petazza[20] de la lasagnera[21], la ghe l’ha dito, e ho credesto che el me bastona[22].

L’azione semplicissima (un matrimonio combinato da due padri «rusteghi» all’insaputa dei futuri sposi, messo in pericolo dall’iniziativa di siora Felice, ribelle alla legge dei «rusteghi», che ha portato il fidanzato in casa della fidanzata e li ha fatti vedere l’un l’altro prima delle nozze, e poi accomodato nella pace di tutti dalla stessa donna tanto superiore in intelligenza e loquacità ai «rusteghi») si svolge in una linea scenica di estrema armonia e nel giuoco abilissimo che unisce e separa i componenti dei due gruppi di personaggi-voci: quello dei «rusteghi» con le loro manie e debolezze, con le loro buffe caratteristiche persino di linguaggio, con il loro saldo amore della casa e della sicurezza economica, del lavoro e della sobrietà, quello delle «desmestighe», delle donne anch’esse con i loro piccoli ed umani difetti, con la loro maggiore ansia di felicità anche se cosí modesta (ma anche i «rusteghi» a modo loro l’hanno, pur se cosí gelosa e chiusa, e anche loro hanno i loro sogni e i loro ricordi piacevoli), tutti e due interamente omogenei e con sfumature precise sul comune fondo omogeneo, e infine i due giovanetti con la loro luminosa e pur comica ingenuità.

E si noti come il perfetto disegno si svolge in movimenti piú simili nei primi due Atti (persino con una certa simmetria: sc. 1: Margherita e Lucietta, sc. 2: Margherita, Lucietta e Lunardo, scene 3-4: Margherita e Lunardo, sc. 5: Lunardo e Maurizio, e poi sc. 6: Marina e Filippetto, sc. 7: Marina, Filippetto e Simon, sc. 8: Marina e Simon, ecc.) fino all’urto della fine del II Atto (la scoperta che Filippetto è in casa di Lucietta) e poi, attraverso i nuovi «cori» dei «rusteghi» e il contrasto con siora Felice che li fa restare muti e sorpresi, e attraverso l’ultimo sussulto di tempesta con l’ostinazione di Maurizio e l’ultimo intervento di siora Felice, lo scioglimento sereno nella concordia, nella quiete ristabilita, nella letizia da cui non è escluso neppure il «cavaliere foresto», che pure ha una sua vita piú contratta e schematica e rimane piú estraneo all’atmosfera generale della commedia. Donde la giustezza della definizione goldoniana di «tempesta in mezzo alla calma» se la si interpreti come modo di sottolineare il fondo non drammatico e pur non frivolo e il tono comico che continuamente smussa le punte piú inquiete dell’azione, la forza di dominio del poeta sulla sua materia e il suo amore per il comico come espressione del limite di ogni tensione e di ogni contrasto. Né con ciò si riduce la forza di vero poeta del Goldoni, che in quella stessa comicità vive una serietà autentica e la cui «umana letizia» nasce dal pieno della realtà umana e non da una facile evasione edonistica o da una coloritura «rosea» e mediocre delle cose e degli uomini.

Anche La casa nova è commedia di meravigliosa unità, pur se non cosí simmetrica come i Rusteghi. Anche in questa e forse in maniera ancora piú alta[23] il Goldoni ha espresso perfettamente in un organismo snello e coerente, armonioso e vitale, elastico ed elegantissimo, la sua poesia della casa e delle piccole «tempeste in mezzo alla calma», la sua profonda simpatia sorridente per un mondo di personaggi antieroici, comuni ed umani, nella loro vita quotidiana fra piccole ansie e soluzioni felici. E se qui è piú spiccato il rilievo di Cecilia (la giovane sposa che con le sue pretese di vita elegante ha rovinato, senza saperlo, l’innamoratissimo e debole marito, Anzoletto, e che poi saprà con il suo «spirito» rendersi conto della situazione, raggiustare le cose conquistando il «rustego» assai bonaccione, lo zio Cristofolo), esso non esclude però la sostanziale omogeneità di fondo dei diversi personaggi, cosí abilmente individuati per sfumature e cosí bene affiatati nella loro umanità e nel margine di umorismo in cui questa si limita e si realizza «comicamente».

Mentre la viva poesia della casa trova qui una sua singolare espressione: la casa «nova», invasa prima dai falegnami e dai tappezzieri e quasi ostile e fredda, si rivela a poco a poco ai suoi abitanti, si anima della loro presenza e soprattutto permette un giuoco incantevole di scene fra i due piani, quando i nuovi abitanti entrano in relazione con le vecchie inquiline ed il piano di sopra diventa il centro delle trame per le nozze fra Meneghina e Lorenzino e per l’intervento chiarificatore di zio Cristofolo. Ed in questa tenue vicenda (senza nulla di romanzesco e di eccezionale) una fluida limpidezza di disegno e di voci, un’animazione continua con una tensione ritmica, tanto piú alta quanto piú priva di ogni rigidezza e volontà di evidenza, si compongono in una organicità poetica cosí fusa che è impossibile estrarne antologicamente scene e passi senza perdere anche di questi la singolare bellezza che risulta dalla loro assoluta interdipendenza da tutto il resto della commedia.

Naturalmente l’armonia e la necessità assoluta dei Rusteghi e della Casa nova sono punti difficili da sostenere anche nel vero periodo di grazia che il Goldoni si trovò a vivere fra la fine del ’60 e il ’62. Ed ecco che, pur sulla stessa direzione ispirativa, una minore tensione ed un minor equilibrio danno un risultato molto inferiore in quella Buona madre (1761) in cui il Goldoni si proponeva anche il compito morale di un ritratto virtuoso ed esemplare. In realtà in questo caso il ritratto della «buona madre» si fa un po’ troppo sentimentale, cosí come la stessa voce della casa e della vita quotidiana diviene piú particolareggiata e minutamente realistica (si pensi alla scena iniziale della stireria ed a quella della offerta di stoffe del mercante[24]) e tutto il disegno si fa allungato, lento e dispersivo anche nel passaggio fra i due centri: la casa della «buona madre» e la casa di Lodovico e Daniela, equivoca trappola per l’inesperto Nicoletto, il giovanetto che la «buona madre» vuole sposare vantaggiosamente con la ricca vedovella Agnese. Quante cose gustose, quanti spunti felici (e quel Lunardo che, accalappiato da Daniela, si scusa con la saggia Margarita con una risposta cosí goldoniana: «Care creature, compatime. Son anca mi de sto mondo»[25]); ma l’insieme è debole, discontinuo e mancante di quella forza centrale che tornerà a presentarsi nel Sior Todero brontolon e nelle Baruffe chiozzotte.

Sior Todero brontolon (1762) è commedia di salda ispirazione, anche se vi si avvertono momenti ed elementi meno a fuoco come le parlate un po’ troppo sentenziose del saggio Meneghetto e qualche raccordo di scena meno curato, piú andante. Anche qui la casa borghese porta un primo elemento di unità e di poesia, specie nel bell’inizio in cui la voce tra stupita e irata di Marcolina (la nuora di Sior Todero), intrecciandosi con quella fresca e risentita della servetta Cecilia, traduce in maniera essenziale l’atmosfera della casa e delle cose piú tipiche del risveglio mattutino:

Marcolina:

E cussí? Ghe xe caso che possa bever el caffè stamattina?

Cecilia:

Co no la manda a tòrselo alla bottega, ho paura che no la lo beva.

Marcolina:

Per cossa? No ghe n’è del caffè in casa?

Cecilia:

Siora sí, ghe ne xe, ma el paron vecchio l’ha serrà el caffè e l’ha serrà el zucchero sotto chiave.

Marcolina:

Anca questa ghe xe da novo? Fra le altre insolenze che ho sofferto da mio missier[26], ho anca da tollerar che el me serra el zucchero, che el me serra el caffè?

Cecilia:

Cossa dísela? Piú vecchio che el vien, el vien pezo che mai.

Marcolina:

Com’ela stada? Che grillo ghe xe salta in testa? Che vovada[27] xe stada questa?

Cecilia:

La sa che el xe un omo che bísega per tutto[28], che brontola de tutto. L’è andà in tinello[29], l’ha dà un’occhiada al zucchero, l’ha dà un’occhiada al caffè; l’ha scomenzà a dir: Vardè; un pan de zucchero in otto zorni el xe debotto[30] finio; de una lira de caffè debotto no ghe ne xe piú. No gh’è regola; no gh’è discrezion. L’ha tolto suso la roba; el se l’ha portada in camera, e el se l’ha serrada in armer[31].

E nelle due voci femminili si rivela la comica situazione della casa dominata dal «taroccare» di Sior Todero, avaro ed egoista fino all’ingenuità (è vecchio, ma pensa che potrebbe campare fino a centoquindici o centoventi anni e si preoccupa di sistemare Nicoletto, il figlio del fattore Desiderio, perché «a una morte» di quest’ultimo il primo possa seguitarlo a servire) e disposto perciò a dare in moglie la nipote Zanetta a Nicoletto per non pagare la dote. La situazione è al solito semplicissima: «una tempesta in mezzo alla calma», un piccolo intrigo felicemente riuscito con una trovata (sempre affidata all’estro femminile come nei Rusteghi e nella Casa nova) che dà alla commedia un finale piú mosso ed un momento di grandissima vivacità: quando siora Fortunata e Marcolina, dopo aver minacciato Nicoletto lo inducono a sposare Cecilia rovinando irrimediabilmente i piani di Sior Todero. La conclusione felice riporta la calma, una calma migliore, basata su nuovi rapporti piú cordiali e possibili tra Marcolina, Todero e l’inetto Pellegrino.

E del resto di fronte alla compiutezza perfetta, alla costanza di tensione dei Rusteghi e della Casa nova le stesse Baruffe chiozzotte, pur nella diversità della loro impostazione di commedia piú aperta e corale, appaiono meno perfette e si può notare una certa minore essenzialità soprattutto al centro della commedia nei duetti troppo lunghi fra Isidoro e le donne. Ma se si può avvertire a volte un certo cedere del ritmo ed un infievolirsi della tensione generale che regge le singole voci di questo mondo omogeneo e corale, si deve anche calcolare la singolare bellezza di un’opera in cui il Goldoni dava vita piú esplicitamente e poeticamente ad una zona essenziale della sua simpatia umana e poetica: a quell’umile strato popolare di pescatori (a Chioggia vi era anche un preciso sfondo di ricordo e di esperienza personale, una realtà ricca di fascino per lui) di cui con una serietà cosí cordiale e commovente egli si preoccupa proprio nell’avvertimento «A chi legge» premesso alle Baruffe, dicendo come le sue «tabernarie» si rivolgessero soprattutto al popolo minuto, tolto dalla «frequenza dell’Arlecchino» e d’altra parte non capace di capire «tutti i caratteri», sicché: «era ben giusto, che per piacere a quest’ordine di persone, che pagano come i nobili e come i ricchi, facessi delle commedie nelle quali riconoscessero i loro costumi e i loro difetti, e, mi sia permetto di dirlo, le loro virtú»[32].

In quell’avvertimento assai interessante, il Goldoni insisteva, anche in replica al Gozzi, sul suo diritto di portare sulla scena personaggi popolari, vicende «tratte da quanto ci è di piú basso nel genere umano, le quali disgustano o almeno non interessano le colte e delicate persone» (ma è detto ironicamente), sul suo diritto di imitare la natura e non solo «la bella natura». E se la giustificazione delle sue «tabernarie» (le vere e proprie «tabernarie» sarebbero I pettegolezzi delle donne, Le massere, Il campiello e Le baruffe) può dimostrare qualche incertezza critica e qualche prudenza, certo ben vi si avverte la coscienza della propria felicità creativa e il proprio amore sincero per quel «popolo minuto» che egli sentiva cosí schietto e spontaneo, cosí vitale, omogeneo e vario nei suoi umili e umani rappresentanti.

Le Baruffe sono appunto il trionfo della vitalità del popolo minuto veduto in un suo luogo preciso, in una sua precisa tradizione (dove sono i pastori e i contadini di Arcadia, cosí aggraziati e generici?), con un preciso linguaggio di cui, nell’avvertimento, il Goldoni si preoccupa di chiarire la particolare differenza dal veneziano. Non elogio generico delle virtú del popolo, ma rappresentazione poetica della sua vitalità, della sua umanità interessante perché vera, spontanea, capace di suscitare insieme tenerezza e umorismo (piú dei personaggi dell’alta società di cui piú facile viene la caricatura e la satira) alla pari dei borghesi, dei cittadini, cui la simpatia del Goldoni va piú da pari a pari e forse con miglior precisione di rilievo singolare. Qui il popolo «minuto» si presenta soprattutto come folla e coro, e le sfumature personali (sempre ridotte in caratteristiche di voci persino esterne e buffe come gli storpiamenti di parole di padron Fortunato che rivelano la sua curiosa fretta e la sua avventata precipitazione) sono sottili gradazioni di un colore comune, cosí come il rilievo dei vari motivi psicologici – l’ira di Titta Nane e di Toffolo, la civetteria e poi la commozione di Lucietta, ecc. – è minimo e delicatissimo poiché il poeta tende (e qui egli mostrava anche l’estrema eleganza della sua costruzione tutt’altro che veristica e rude, malgrado il gergo e le usanze dei pescatori: quanto piú impegno di verità tanto piú trasfigurazione poetica), tende, dicevo, ad una trama lieve e trascolorante, ad un incontro di voci che partono dal coro e tornano nel coro come espressione concreta di una società compatta e insieme varia.

Anche qui splendido l’inizio (che fa sentire una volta di piú come il Goldoni trasfiguri la realtà in poesia servendosi dei mezzi apparentemente piú semplici e imitativi). Con le donne sedute davanti ai loro merletti nella strada popolare attraversata dall’odore del vento marino, con le loro limpide voci che nelle brevi battute (le Baruffe sono particolarmente intessute con battute brevi e poco complicate) legatissime pur nella loro apparente casualità, passano rapidamente dall’intonazione della loro poesia umile ed intensa (il tempo, il mare, il ritorno atteso degli uomini, il lavoro) al suo svolgimento nel giro arioso dei pettegolezzi che si aggrumano a poco a poco in tempesta per l’intervento del galante Toffolo e per l’ingenua civetteria di Lucietta fino allo scoppio della baruffa fra le donne.

Poi l’arrivo della tartana di padron Toni sembra riportare la pace fra le donne: pace solo apparente e nel finale dell’Atto i una nuova baruffa si accende fra gli uomini adirati contro Toffolo. Tutto il i Atto è singolarmente bello, tenuto su di un ritmo allegro e continuo in cui nessuna battuta cade o è superflua. Meno intenso mi pare il ii con la lunga serie di interrogatori alla cancelleria criminale anche se Isidoro, cancelliere e cortesan veneziano, fa da reagente ai «veri» caratteri delle donne e di alcuni pescatori. Ma il ritmo riprende il suo andamento piú serrato e la sua tendenza al coro, all’incontro di piú voci, con il III Atto, quando a poco a poco (e addirittura scena per scena dalla 1 alla 8) si vengono ad aggiungere i personaggi per un tentativo di pace che sfumerà alla scena 10 in una nuova baruffa femminile e tutto il finale sarà un continuo alternarsi di sussulti e di distensioni sino alla scena patetica fra Titta Nane e Lucietta e la conclusione della pace e dei matrimoni. E si pensi proprio alla scena fra Titta Nane irato e Lucietta piangente, per notare in questa commedia cosí viva, lieta e lieve, la particolare disposizione del Goldoni maturo e commisurare l’incisione psicologica al tono che vuole raggiungere e che supera nel suo valore generale e corale ogni scavo di personaggio in sé e per sé, diversamente dall’epoca di Mirandolina:

Titta:

Cossa gh’astu?[33] (a Lucietta, rusticamente)

Lucietta:

Gnente. (piangendo)

Titta:

Via, animo. (a Lucietta)

Lucietta:

Cossa vustu?

Titta:

Coss’è sto fiffare[34]?

Lucietta:

Can, sassin. (a Titta Nane, con passione)

Titta:

Tasi. (con imperio)

Lucietta:

Ti me vuol lassare?

Titta:

Me farastu piú desperare?

Lucietta:

No.

Titta:

Me vorastu ben?

Lucietta:

Sí.

Titta:

(a Lucietta) Paron Toni, donna Pasqua, lustrissimo, co bona licenzia. Dame la man.

Lucietta:

Tiò. (gli dà la mano)

Titta:

Ti xe mia muggiere. (sempre ruvido)[35]

Si può avere anzi l’impressione (minore però nei Rusteghi, nella Casa nova e nel Sior Todero) che nelle Baruffe (come già e piú nel Campiello) il Goldoni tendendo al ritmo generale, al coro, abbia finito per ridurre i personaggi a puri timbri di voci e a figurine senza vita interna: e certo su questa strada, al di là del mirabile equilibrio delle Baruffe (dove le figure hanno quel tanto di vita personale che occorre per rilevarle nella generale vitalità che esse esprimono), si può arrivare anche nell’ultima commedia veneziana, Una delle ultime sere di carnovale, a caratterizzazioni piuttosto di macchiette che di personaggi. In quest’ultima commedia, a cui il Goldoni volle assegnare un lieve significato allegorico (l’addio che Anzoletto, disegnatore per ricami, chiamato in Russia, dà ai suoi amici, clienti ed ammiratori veneziani, è l’addio che Goldoni dà al suo pubblico), non conta tanto una venatura di nostalgia preventiva, di commozione aperta, quanto la maniera con cui l’addio si concreta in una scena festosa e variopinta, in una cena di un’ultima sera di carnevale, e dunque non in forme patetiche, ma in un rinnovato omaggio alla vitalità serena di una società attiva e fiduciosa, in una replicata prova della simpatia poetica del Goldoni per il suo mondo piú vero.

E piú dell’onesto Anzoletto saggio ed equilibrato, e della sua innamorata Domenica, che sono pure al centro della piccola azione, risaltano, nel loro valore di sfumature gustosissime su di uno sfondo comune nella letizia e nelle piccole peripezie della cena che il buon fabbricante di stoffe Zamaria dà agli amici, le figure e le voci dello stesso Zamaria, vecchietto arzillo e bonario, di sior’ Alba, con i suoi vapori e le sue smanie di malata immaginaria, dei due giovani sposi avari e gelosi (Augustin e Elenetta), dei due innamorati spiritosi ed esperti della vita (Polonia e Momolo), della vecchia ricamatrice francese Madame Gatteau, cosí briosamente caricaturale. Qui tutto procede però piú a sbalzi che nelle Baruffe e solo nella scena lunga del giuoco della Meneghella l’intreccio delle voci e il passaggio dell’intrigo centrale fra Domenica e Anzoletto, attraverso le fila della conversazione a due a due dei giuocatori, raggiunge una vera perfezione accompagnandosi alla mirabile dosatura dell’unica dimensione di tenerezza affettuosa e di umorismo che costituisce il tono difficile della commedia goldoniana.

E il complesso, pur non avendo vera forza centrale, vive di una letizia, di un intimo fervore che il Goldoni non troverà piú cosí spontanei e poetici se non, in minore misura, nella commedia scritta in Francia, ma di intonazione e in dialetto veneziano, Chi la fa l’aspetta.


1 Nel Campiello va notato come il Goldoni avesse sperimentato assai felicemente un incontro di settenari ed endecasillabi molto agile e vicino ai movimenti piú liberi di quel discorso poetico, ritmico e rapido, che contraddistingue la prosa dei suoi capolavori veneziani e specie delle Baruffe.

2 E si pensi come in questo caso il Goldoni mostri la sua piena originalità, su questo tema degli «innamorati», rispetto ai vecchi scenari in cui esso era particolarmente convenzionale, e rispetto agli altri commediografi del primo Settecento cosí impacciati a dar voce alla complessa vita del sentimento amoroso.

3 Nella bellissima scena 13 del iii Atto Eugenia dice a Fulgenzio: «Vi pare che sia di voi poco accesa? Non vi bastano le mie lacrime, i miei sospiri? Sono inquieta, è vero; ma le mie inquietudini sono partorite da amore».

4 Succianespole è qui il piú vivo ricordo di maschera e di commedia dell’arte, ma si pensi alla stessa scena 7 del i Atto con Fabrizio, basata sul giuoco dei «Gnor sí», «Gnor no», simile in apparenza a quella di una commedia del 1741 (La bancarotta, Atto III, sc. 3), e si potrà misurare nel confronto la diversa funzione di questo giuoco comico nella commedia del 1759.

5 Non si dimentichi soprattutto la felicità sorprendente della figura dello zio Bernardino, spietato e irridente, egoista e disumano di fronte alle sventure del nipote Leonardo: figura che pur comparendo in due sole scene (la 5 e la 6 dell’Atto II del Ritorno) rimane indimenticabile per l’energia della sua rappresentazione.

6 Tale posizione, in reazione al Croce (mancanza della «divina malinconia»), ma entro il canone crociano distinzionistico di poesia e non poesia o di poesia e letteratura, è rappresentata dal volumetto, del resto assai vivace, di E. Gimmelli (La poesia di Goldoni, Pisa 1941).

7 Figlia. (N.d.A.)

8 Or ora. (N.d.A.)

9 È finito; servendo per sempre, che il xe in veneziano vuol dire è, est. (N.d.A.)

10 Avuto. (N.d.A.)

11 Quando io era. (N.d.A.)

12 Madre. (N.d.A.)

13 Sei. (N.d.A.)

14 Si faceva. (N.d.A.)

15 Reduto: il Ridotto, una bisca nel palazzo di Marco Dandolo a San Moisé, dove i patrizi andavano a giocare e dove avevano libero accesso le maschere.

16 Situazione stabilita dall’uso nella gran Piazza di San Marco, ove si fa il passeggio delle maschere. (N.d.A.)

17 Andar a gironi. (N.d.A.)

18 Nemmeno. (N.d.A.)

19 Un poco. (N.d.A.)

20 Sguaiata. (N.d.A.)

21 Che vende le paste. (N.d.A.)

22 I rusteghi, Atto i, sc. 1.

23 Si ricordi come lo stesso Goldoni nell’avvertenza al lettore abbia riconosciuto a questa commedia un primato di «perfezione» esemplare fra tutte le sue commedie.

24 Atto i, sc. 1; Atto II, sc. 6.

25 Atto III, sc. ultima.

26 Suocero. (N.d.A.)

27 Pazzia. (N.d.A.)

28 Che mette le mani per tutto. (N.d.A.)

29 Camera destinata a mangiare in famiglia. (N.d.A.)

30 Quanto prima. (N.d.A.)

31 armer: armadio (Sior Todero brontolon, Atto i, sc. 1).

32 Opere, ed. cit., vol. viii, p. 130.

33 Cossa gh’astu?: cosa hai tu?

34 Piangere. (N.d.A.)

35 Le baruffe chiozzotte, Atto III, scena ultima.